Solennità religiose

La Natività e il Natale nella Tradizione bizantina

 

Prima del secolo IV, in tutta la cristianità il Natale coincideva con l’Epifania. “Nella prima metà del IV secolo, le costituzioni della chiesa di Alessandria stabiliscono che il 6 gennaio si deve celebrare contemporaneamente la festa della Natività e dell’Epifania (Battesimo) di Cristo. Attraverso alcune omelie di san Gregorio di Nissa, sappiamo che nel 380 i fedeli di Cappadocia celebravano il Natale il 25 dicembre, mentre l’Epifania continuava ad essere celebrata il 6 gennaio. Sappiamo anche che, fino al 385, la festa del Natale non era celebrata a Gerusalemme: nella Città Santa continuerà ad essere ignorata fino agli inizi del VI secolo. Nel 386 la celebrazione del Natale fu introdotta ad Antiochia da san Giovanni Crisostomo, e attraverso di lui la festa giunse a Costantinopoli tra il 398 e il 402” (2).

Ippolito, riecheggiando Giustino († tra il 162 e i 168), riferisce che a Roma già nel 204 si celebrava il Natale del Signore il 25 dicembre. Nella prima metà del IV sec., la Depositio Martyrum filocaliana, un abbozzo di calendario liturgico che risale all’anno 354 attesta l’esistenza della festa di Natale a Roma nell’VIII Kal. Ianuarii natus Christus in Betleem Iudeae, cioè nell’ottavo giorno prima delle calende di gennaio (1 gennaio), il 25 dicembre. È presumibile che la Chiesa romana, almeno fino a qualche decennio dall’istituzione della festa di Natale, non conoscesse quella analoga della Teofania, che si celebrava in Oriente il 6 gennaio. Più tardi, poco a poco, la celebrazione del Natale il 25 dicembre si impose in tutta la cristianità. Nella tradizione latina sono tre le celebrazioni natalizie: il Natale vero e proprio (25 dicembre); l’adorazione dei Magi [6 gennaio; i doni che essi portano simboleggiano il riconoscimento della realtà della persona di Cristo, veramente uomo (la mirra era usata per la conservazione dei cadaveri), veramente Re (l’oro) e veramente Dio (l’incenso per il culto divino)]; il battesimo del Signore (dal 13 gennaio, a conclusione dell’ottava dell’Epifania, oggi è stato anticipato alla prima domenica successiva al 6 gennaio). La tradizione bizantina è rimasta più vicina alle origini: il 25 dicembre celebra la nascita di Cristo “secondo la carne” e l’adorazione dei Magi, il 6 gennaio la Teofania. A causa della sua originaria coincidenza con la festa della Teofania il Natale è parte dell’insieme grandioso delle Sacre Teofanie. Si spiega così l’irradiamento della “Luce trisolare” sull’icona della Natività, manifestazione velata della Santa Trinità che tutto immerge nella sua luce, giustificando così anche il nome di “Festa delle Luci”. I libri liturgici danno al Natale anche il titolo di Pasqua. “L’anno liturgico avanza così tra due poli di eguale portata: la Pasqua della Natività e la Pasqua della Risurrezione: l’una racconta già l’altra” (3). “… La Natività, vissuta e compresa nella folgorante realtà del mistero pasquale è un annuncio di salvezza: ‘Il Creatore, vedendo che periva l’uomo che Egli con le sue mani aveva foggiato, discende piegando i cieli, a costui una Vergine santa e pura dà la sostanza. Sapienza, Verbo e Potenza, Figlio e riflesso del Padre, Cristo Dio, celandosi a tutte le potenze che sono oltre il cosmo e a tutte quelle che sono sulla terra, fattosi uomo ci riscattò’ (dal canone della Natività di Cosma di Gerusalemme, ode I, 2-3)” (4).

Nella Divina Liturgia la commemorazione dell’Incarnazione è presente durante tutto l’anno: nei riti della preparazione dei doni (Proskomidija) presso il piccolo altare laterale (detto per metonimia Pròthesis, offerta) il sacerdote infigge la lancia nella pròsfora tagliandone la parte centrale con il monogramma di Cristo (IC XC NIKA, Gesù Cristo vince): “con quest’atto raffigura come Cristo prese carne da Maria Vergine, come avvenne la nascita carnale dell’Essere non carnale. Meditando la nascita di Colui che si è offerto vittima per la salvezza del mondo, il sacerdote vede nella prosfora un agnello donato in sacrificio, e nella lancia, necessaria per cavarne l’ostia, la lancia del sacrificio, avendo questa appunto la forma di lancia in ricordo di quella che, sulla Croce, trafisse il costato del Salvatore… Riportandosi con la mente al tempo e al luogo dove avvenne la nascita di Cristo e ricollegando così il passato al presente, il sacerdote vede, nella Prothesis, la grotta misteriosa in cui si degnò nascere il Salvatore, quando il cielo venne traslocato sulla terra e quando esso divenne grotta e questa si cambiò in cielo. Dopo aver incensato la stella (zvedza; si tratta di due semicerchi di metallo prezioso incrociati l’uno sull’altro), la pone sul discarion (o diskos, la patena bizantina: simboleggia la greppia e spesso vi è incisa la scena della Natività (5)), a simboleggiare l’astro che guidò i magi alla grotta dove giaceva Dio bambino e dice: «E la stella, che camminava, si fermò all’altezza dove era il Bambino con Maria sua madre». Avendo incensato il primo velo, ne copre il discarion e recita i versetti del salmo nel quale viene rievocata l’immolazione dell’Essere supremo: nel santo Pane, è raffigurato il Bambino Gesù; nella patena, la mangiatoia dove è stato adagiato; nei sacri veli, i panni in cui è stato avvolto: «Iddio ha stabilito il suo regno, si è ammantato di splendore; il Signore si è rivestito di potenza e se ne è cinto»: questi versetti sono un inno alla meravigliosa maestà del Signore. Dopo aver incensato il secondo velo, il sacerdote ne copre il Calice dicendo: «La tua virtù ha ricoperto i cieli, o Cristo, e la terra è piena della tua lode». Prende quindi il velo più grande (aere), copre discàrion e Calice, e prega Iddio di coprirci col velo protettore delle sue ali. Quindi, scostandosi dalla Pròtesis, s’inchina come fecero i pastori e i magi davanti al Bambino Gesù, e incensa il discos-grotta: questo rito richiama alla mente il profumo dell’incenso e della mirra offerti dai magi assieme all’oro” (6).

Tornando alla festa del Natale, vediamo che fino ai primi sette concili ecumenici (395-787), nelle Chiese Orientali al centro della riflessione teologica furono la divinità di Cristo, la sua piena umanità, l’unione delle due nature divina e umana e il mistero dell’Incarnazione del Signore, da sempre contemplato con grande venerazione. “Gli inni, che cantano l’Incarnazione echeggiando gli scritti dei Padri che scrutarono nel passato questo mistero, mettono in particolare risalto le prerogative divine di Colui che si incarna. Le immagini, le approssimazioni, i concetti si succedono per evocare le sue origini e la sua infinita superiorità di fronte alle limitazioni del creato e della nostra vita terrena. Noi siamo materiali, tangibili, limitati; Egli è immateriale, intangibile e incomprensibile, veramente e perfettamente Dio secondo l’essenza. Noi siamo creati, Egli è l’Artigiano e il Creatore di tutte le cose” (7). Gli innografi tentano di penetrare in profondità il mistero, l’abisso segreto della Divinità, di contemplare il Figlio che riposa nel seno del Padre, dove è generato eternamente, fuori del tempo e prima dei secoli. Di fronte a tanto splendore, Sapienza e Potenza il sentimento religioso bizantino e orientale si esprime nella preghiera e nel pensiero con “un infinito rispetto della maestà e della grandezza divina”. Servire Dio è cosa grande e tremenda anche per le stesse Potenze celesti, dice la preghiera dell’inno cherubico della Divina Liturgia. Il rispetto della grandezza divina non si traduce in allontanamento, ma tanto più attrae quanto più è messa in risalto e risveglia nell’uomo un ardente desiderio di intima partecipazione. Così, gli innografi, mossi dal desiderio di vedere il volto del Dio invisibile e della sua infinita perfezione, penetrano nel santuario della Trinità e vi contemplano l’eterna generazione del Verbo nel seno del Padre. 

Al tempo stesso i tropari della festa dipingono la situazione penosa e disperata di quell’umanità che Dio è venuto ad assumere. “Vediamo Adamo sporco ed Eva piangente immersi nel regno delle tenebre e nel silenzio mortale; portano le loro fronti abbassate, sono smarriti senza speranza… Gli innografi si compiacciono a personalizzare il peccato e le forze del male… L’origine della situazione attuale viene spiegata dal peccato, esso ha rovinato alla radice ogni cosa: Peccato truce, infinitamente orgoglioso e delirante di un mondo in furore… l’antico serpente lotta contro le anime, lancia contro di esse i suoi dardi,… Si è impadronito di noi legandoci solidamente con le catene dei nostri peccati: siamo diventati i suoi schiavi ed egli ci guarda sfrontatamente”. Altrove la nostra condizione è illustrata da immagini spaziali: “Siamo caduti dalle altezze luminose della vita divina, cacciati dal paradiso vivificante. Tra il paradiso e noi c’è un muro di separazione, l’impossibilità di tornarci è significata anche dalla spada fiammeggiante dei cherubini. Siamo chiusi fuori nelle terre senza sole, divisi in molte nazioni, dominati da vari tiranni e dai molti dei del politeismo… Adamo vive in noi: le molteplici seduzioni del male ingannano tuttora l’uomo, conducendolo su vie senza sbocco… Ognuno di noi per poco che si interroghi sinceramente può e deve constatare la propria incapacità nonché l’incapacità di quanti lo circondano di accedere a questo regno di luce vivificante per il quale il suo cuore conserva una nostalgia profonda, un desiderio indistruttibile”. Davanti a tanta miseria, Dio è mosso a compassione, inclina i cieli e scende per “restituire alla sua prima forma colui che anticamente era stato creato a immagine di Dio. Riprende possesso di noi, mette fine alla potenza dell’omicidio, schiaccia il serpente, rompe i legami secolari di Abramo e ci apre il paradiso”. Questa è la prospettiva soteriologica dell’Incarnazione, che si realizza pienamente con la morte e la Risurrezione di Cristo, misteri tutti che rimangono inscindibili e ugualmente presenti nella vita del Messia. “Notevole a questo riguardo l’insistenza con la quale le celebrazioni bizantine della Morte e della Risurrezione di Gesù (durante l’anno liturgico) legano questi atti alle sue origini divine e alla sua nascita nella carne e vi fanno trovare la loro sorgente vivificante”. 

Per la nostra salvezza, nel mistero dell’Incarnazione “Colui che ineffabilmente è stato generato dal Padre prima dei secoli, Colui che è senza inizio, negli ultimi anni della storia dell’umanità, ineffabilmente nasce, come un figlio della stirpe di Adamo, da una Vergine non sposata, senza l’intervento dell’uomo”. Gli inni natalizi celebrano il Figlio dell’uomo, Dio stesso, che diventa uomo: i due universi, quello di Dio e quello dell’uomo, così profondamente diversi, si incontrano e si uniscono. Il giorno della Natività il teocentrismo liturgico sottolineerà soprattutto “l’incomprensibile limitazione di Colui che è senza limite, la sua Filantropia che lo abbassa fino a farlo apparire sotto la figura del Figlio dell’uomo: Oggi nasce dalla Vergine, Colui che tiene nella sua mano ogni creatura; / Egli è fasciato con pannolini, Lui che per essenza è invisibile; / Pur essendo Dio, è adagiato in una mangiatoia, Lui che ha consolidato i cieli” (Tropario delle Ore Grandi, Nona)… Il contenuto dogmatico della festa appare con una gerarchia di valori molto precisa: avanti a tutto c’è Dio nel suo movimento discendente; poi, avviene il miracolo della maternità verginale, risposta divina al fiat della Vergine che fu la condizione umana dell’Incarnazione con il suo correlato indicibile: la creatura genera il suo Creatore; infine, lo scopo della filantropia divina, la deificazione dell’uomo: Tu che ti sei reso simile a un essere vile formato di fango, o Cristo, Tu gli hai comunicato il divino (III ode del Primo Canone)… Colui che, con la sua mano potente, ha creato il mondo, appare come il cuore della sua creazione [Idiomèle di Sesta della Paramonia (è il giorno di preparazione a una festa, qui la Vigilia di Natale)]. Dice infatti sant’Atanasio: Il Verbo non è stato diminuito prendendo un corpo… pertanto ha divinizzato ciò che aveva rivestito (Contra Arianos, I, PG 26, 100 A).

Beati i vostri occhi perché vedono (Mt 13,16), dice il Signore. E la Chiesa canta: Noi adoriamo la tua nascita, o Cristo, facci vedere la tua santa Teofania. Ma, mentre per opera dello Spirito Santo si riveste della sostanza umana, mentre assume un corpo e si rende simile a uno schiavo, Egli rimane Dio: Nascendo da una Vergine senza l’intervento del seme umano, non subisce mutamento: ciò che era rimane, essendo Dio vero; ciò che non era l’ha assunto, essendo diventato uomo per amore degli uomini (testo celebre anche nella tradizione latina, parte del gruppo di inni tradotti in latino in epoca carolingia). L’unione di Dio e dell’uomo resta un mistero indicibile, come indicibile è la sua generazione eterna dal Padre prima dei secoli. 

La Natività è “la festa della ri-creazione” (san Gregorio di Nazianzio) e la liturgia ne trabocca di giubilo: “O mondo, a questa notizia disponiti in coro; con gli Angeli e coi Pastori glorifica il Dio che è prima dei secoli” (Kontakion, V tono). “Fedeli, leviamoci con trasporto… prepariamo con gioia la nostra entrata nelle feste della Natività… e gridiamo: Gloria a Dio nella Trinità” (Stichere idiomèle, I tono). L’allegrezza si precisa meglio – “Il cielo e la terra, in questo giorno si rallegrano profeticamente. Angeli e uomini, esultiamo!” – e indica la sua sconvolgente ragione: “Perché il cielo e la terra oggi si uniscono. Oggi Dio è venuto sulla terra e l’uomo è risalito ai cieli”. “Tutta la creatura esulti in questo giorno”. “Tutta la creazione danzi dunque ed esulti”. “Innanzi a Dio gridi di gioia tutta la terra”. “Venite a trovare la gioia nascosta… il pozzo profondo al quale Davide un giorno desiderò dissetarsi: è là che la Vergine saziò subito la sete di Adamo”. “Cieli siate lieti; balzate o monti, rallegratevi o giusti!”. La caduta dell’uomo ha reso necessario che Dio divenisse uomo per restituirgli l’antica immagine e la dignità vertiginosa di Figlio di Dio. “Ora è tutto nuovo!”. Romano il Melode nel Kontakion della festa traduce poeticamente il racconto del Vangelo e ispira il tema liturgico dell’icone: “La Vergine, in questo giorno, mette al mondo il Sovraessenziale e la terra offre grotta all’Inaccessibile. Gli angeli cantano la sua gloria coi pastori e i magi camminano con la stella, perché ci è nato un pargolo, il Dio che è prima dei secoli” (8).

“Cristo è nato come un figlio della stirpe di Adamo, si inserisce nella storia umana, è frutto del seno di Eva anticamente dannata dalla maledizione. Tutte le creature – dice il tropario – ti portano una testimonianza di gratitudine; … noi una Vergine Madre. Ella è nata dalla radice di Iesse. La Vergine è veramente nostra e Cristo è veramente nostro”. Nondimeno, Egli ci supera come la Vergine ha superato i limiti imposti dalla natura quando ha partorito il Verbo eterno del Padre. Quando portava nel suo seno il Verbo incarnato,… il suo seno… diventava più vasto dei cieli. La Vergine è il luogo dove si realizza l’unione tra Dio e l’uomo. Porta in sé Dio unito ad una forma umana. Il miracolo è che il fuoco della divinità non consuma il seno della Vergine… la Vergine è come il Roveto, ardente a causa della fiamma, ma non bruciato da essa. Trabocca della presenza di Dio e non ne è consumata. Per lei e, tramite lei, per tutti noi, Cristo Dio è come rugiada sul vello di Gedeone e come rugiada che innaffia la terra, ci illumina, ci rinfresca, ci salva; non è di giudizio o di condanna, come dice l’ultima preghiera preparatoria alla comunione, ma per la nostra salvezza (9).

La liturgia ricorda un’altra profezia che indirizza lo sguardo verso il bambino: “Tu hai riempito di gioia i magi, interpreti delle parole dell’antico indovino Balaam… e Tu sei sorto come la stella di Giacobbe” (tropario della IV ode). Ed ecco il simbolo centrale della luce, la stella annuncia l’aurora e passa al mezzogiorno splendente: “Un Sole di Giustizia illumina coloro che erano seduti nelle tenebre della morte” (Lc 1,78-79); “a chi era asservito alla morte ed era caduto dalle altezze della vita divina, il saggio Artefice ha reso la sua forma antica” (Vespri, tropario I tono). “O profondità della Sapienza! Quanto sono impenetrabili le tue vie!” (Rm 11,33). Tuttavia esse conducono al cuore della divina Filantropia: “Unito ad una forma mortale, Dio libera il seno di Eva dall’antica maledizione” e “traccia una via aperta verso il cielo” (Irmos del II canone, I tono). Ma la grandezza dell’avvenimento, quando “Gesù inclina i cieli e ne discende”, non è semplicemente di andare a cercare l’uomo caduto. Vi è l’angoscioso mistero dell’avversario e i testi liturgici lo precisano in un crescendo: “Tu abbassi gli sguardi sfrontati del nemico… per ricondurre a Te la creatura caduta” (Mattutino, tropario III ode). Il tema dei “tre fanciulli nella fornace” è introdotto per mostrare fin dove il Signore “inclina i cieli”: “La fiamma crepita e sibila, ma risparmia gli adolescenti, perché il Signore accorda loro una rugiada abbondante” (Mattutino, tropario, VII ode) e “il fuoco infernale si allontana” (Irmos della VII ode). In mezzo ai tre fanciulli “che passeggiano nel fuoco senza che faccia loro alcun male” appare il misterioso quarto “che ha l’aspetto di un figlio degli dei”. In sintesi è tutto il mistero della Natività e dell’incarnazione. “Ascolta o cielo, porgi l’orecchio o terra; che i tuoi fondamenti crollino, che la paura s’impossessi degli inferi, perché il Creatore si rivela cuore della sua creazione” (Stichere della Ore Grandi, IV tono). “Tu sei disceso come il nembo sul fuoco, o Cristo, o come gocce di rugiada che irrorano la terra riarsa” (tropario della IV ode). “L’onnipotenza cancella il truce peccato di un mondo feroce caduto nelle voragini delle tenebre e copre di vergogna il nemico” (Tropario della VII ode). La portata dell’atto divino per l’uomo – “noi che eravamo nell’ombra delle tenebre e della morte, abbiamo trovato l’Oriente degli orienti” (exapostilario, dal greco exapostoli, invio) (10) – va oltre la sua sola salvezza: “I cieli si estendono fin nella caverna” e la trasformano: “Venite, godiamo il paradiso in questa grotta” (Irmos, IX ode)… Il mistero è così grande e così terribile, che i testi parlano per allusioni, e “il resto sarà venerato col silenzio”, secondo il saggio consiglio di s. Gregorio di Nazianzio… Tutto è contenuto in un solo atto e vi si riflette. “La festa della Natività contiene già l’Epifania, la Pasqua e la Pentecoste”, dice s. Giovanni Crisostomo. Ciò che Adamo non ha saputo raggiungere salendo, Dio l’ha realizzato al suo posto discendendo. Alla concupiscenza luciferina del divino, Dio risponde generosamente col dono della deificazione. Ma per farlo: “Tu sei disceso sulla terra per salvare Adamo, e non avendolo trovato, o Signore, sei andato a cercarlo fino all’inferno” (Mattutino del Grande Sabato di Quaresima). “Fiaccola portatrice di luce, la carne di Dio sottoterra dissipa le tenebre dell’inferno” (ivi) (11). 

Per concludere, ecco l’íkos del kondákion (12) della festa: “Betlemme ha aperto l’Eden; venite, contempliamolo! Vi abbiamo trovato la gioia nel segreto; venite godiamo del paradiso in questa grotta. È lì che appare la radice espiatrice che produce il perdono; è lì che si trova il pozzo profondo al quale Davide desiderò bere; è lì che la Vergine, avendo partorito il suo Figlio, dissetò subito la sete di Adamo e di Davide. Affrettiamoci verso questo luogo dove ci è nato, piccolo fanciullo, il Dio anteriore ai secoli”. Questo sia il nostro desiderio, questa la nostra fiducia in Colui che solo può portarci la salvezza.

 

http://www.larici.it/culturadellest/icone/contributi/natale/04.html

 

La festa dell’Esaltazione della Santa Croce nella tradizione bizantina

 

La festa del 14 di settembre porta come titolo nei libri liturgici di tradizione bizantina: “Universale Esaltazione della Croce Preziosa e Vivificante”, ed ha un’origine gerosolimitana collegata alla dedicazione della basilica della Risurrezione edificata sulla tomba del Signore nel 335, ed anche con la celebrazione del ritrovamento della reliquia della Croce da parte dell'imperatrice Elena e del vescovo Macario. La Croce ha un posto rilevante nella liturgia bizantina: tutti i mercoledì e venerdì dell'anno viene commemo­rata col canto di un tropario; inoltre si commemora anche la terza domenica di Quaresima e i giorni 7 maggio e 1 agosto. Nei testi liturgici bizantini la Croce viene sempre presentata come luogo di vittoria: di vittoria di Cristo sulla morte, di vittoria della vita sulla morte, luogo di morte della morte. La celebrazione liturgica del 14 settembre nella tradizione bizantina è preceduta da un giorno di prefesta il 13, in cui si celebra appunto la dedicazione della basilica della Risurrezione, e si prolunga con un’ottava fino al giorno 21 dello stesso mese di settembre. I testi dell’ufficiatura di questa festa mettono ripetutamente in luce il parallelo tra l’albero del paradiso nel libro della Genesi e l’albero della Croce: “Croce venerabilissima che le schiere angeliche circondano gioiose, oggi, nella tua esaltazione, per divino volere risol­levi tutti coloro che, per l’inganno di quel frutto, erano stati scacciati ed erano precipitati nella morte…”; “nel paradiso un tempo un albero mi ha spogliato, perché facendomene gustare il frutto, il nemico ha introdotto la morte; ma l’albero della croce, che porta agli uomini l’abito della vita, è stato piantato sulla terra, e tutto il mondo si è riempito di ogni gioia…”; “La croce che ha portato l’Al­tissimo, quale grappolo pieno di vita, si mostra oggi ele­vata da terra: per essa siamo stati tutti attratti a Dio, e la mor­te è stata del tutto inghiottita. O albero imma­co­lato, per il quale gustiamo il cibo im­mortale dell’Eden, dando gloria a Cristo!”. Uno dei tropari dell’ufficiatura vespertina, con delle immagini veramente toccanti e teologicamente profonde, riassume tutto il mistero della salvezza che ci viene dalla Croce di Cristo: “Venite, genti tutte, adoriamo il legno benedetto per il quale si è realizzata l’eterna giustizia: poiché colui che con l’albero ha ingannato il progenitore Adamo, viene adesca­to dalla croce, e cade travolto in una funesta caduta… Col sangue di Dio viene lavato il veleno del serpente, ed è annullata la maledizione della giusta condanna per l’ingiu­sta condanna inflitta al giusto: poiché con un albero bisognava risanare l’albero, e con la passione dell’impas­si­bile di­strug­gere nell’al­bero le passioni del condannato”. Ancora in un altro dei tropari, l’incarnazione di Cristo, Dio nella carne, è presentata come l’esca che nella Croce attira e vince il nemico: “O albero beatissimo, su cui è stato steso Cristo, Re e Signore! Per te è caduto colui che con un albero aveva ingannato, è stato adescato da Dio che nella carne in te è stato confitto, e che dona la pace alle anime nostre”. Diversi dei testi liturgici fanno una lettura cristologica dei tanti passi dell’Antico Testamento che la tradizione dei Padri e delle liturgie cristiane di Oriente e di Occidente hanno letto ed interpretato come prefigurazioni del mistero della Croce del Signore: Giacobbe che benedice con le mani incrociate, il passaggio del Mare Rosso colpito dal legno di Mosè, le braccia di costui innalzate mentre il popolo lotta contro Amalek, il profeta Giona ancora che prega con le mani alzate nel ventre del mostro marino: “Tendendo le mani in alto e mettendo in rotta Amalek, Mosè ha prefigurato te, o Croce preziosa…”; “Ciò che Mosè prefigurò un tempo nella sua persona, mettendo cosí in rotta Amalek ed abbattendolo, ciò che Davide cantore ordinò di venerare come sgabello dei tuoi piedi, la tua Croce preziosa, o Cristo Dio”; “Tracciando una croce, Mosè, col bastone ver­ticale, divise il Mar Rosso per Israele che lo passò a piedi asciutti, poi lo riuní su se stesso volgendolo contro i carri di faraone, di­segnando, orizzontalmente, l’arma invincibile”; “Nelle viscere del mostro marino, Giona stendendo le palme a forma di croce, chiara­mente prefigurava la salvifica passione: perciò uscendo il terzo giorno, rappre­sentò la risurrezione del Cristo Dio crocifisso nella carne che con la sua risurrezione il terzo giorno ha illuminato il mondo”. Alla fine dell’ufficiatura del mattutino, ha luogo il rito dell’esaltazione e la venerazione della santa Croce. Durante il canto della dossologia, il sacerdote prende dall’altare il vassoio che contiene la Croce preziosa collocata in mezzo a foglie di basilico, l’erba profumata che secondo la tradizione era l’unica a crescere sul Calvario e che attorniava alla Croce al momento del suo ritrovamento, colloca il vassoio sulla sua testa e in processione lo porta fino a davanti la porta centrale dell’iconostasi e nel bel mezzo della chiesa. Lì, dopo il canto del tropario: “Salva, Signore, il tuo popolo, e benedici la tua eredità…”, lo depone su un tavolino, fa tre prostrazioni fino a terra e, prendendo in mano la Croce con le foglie di basilico, guardando ad oriente, la innalza sopra il proprio capo, poi l’abbassa fino a terra ed infine traccia il segno di croce, mentre i fedeli cantano per cento volte l’invocazione “Kyrie eleison”. Questa grande benedizione il sacerdote la ripete in direzione ai quattro punti cardinali e quindi di nuovo verso l’oriente, intercalando ad ogni parte una piccola litania in cui si invoca la misericordia e la benedizione del Signore sulla Chiesa e sul mondo intero. Al termine il sacerdote innalza la croce e canta il tropario: “Tu che volontariamente sei stato innalzato sulla croce, dona, o Cristo Dio, la tua compassione, al popolo nuovo che porta il tuo nome…”, e con essa benedice il popolo segnando una croce. Poi, deposta la Croce di nuovo sul tavolino, canta il tropario: “Ado­riamo la tua croce, Sovrano, e glorifichiamo la tua santa risurrezione”, e tutto il popolo fedele passa a venerare la Croce e ricevendo delle foglie di basilico, a ricordare anche il buon profumo del Cristo risorto che i cristiani siamo chiamati a testimoniare nel mondo. Questa grande venerazione della Croce e la sua simbologia, riassume quindi i grandi temi teologici trovati nei testi della liturgia della festa: la Croce collocata nel bel mezzo della Chiesa come il nuovo albero nel bel mezzo del nuovo paradiso; la Croce come luogo da dove sgorga la salvezza e la vita per tutta la Chiesa. L’icona della festa presenta la figura del vescovo Macario innalzando la santa Croce, con dei diaconi attorno; alcune delle icone introducono anche l’imperatrice Elena tra i personaggi. L’icona rappresenta proprio la celebrazione liturgica del giorno con la grande benedizione e venerazione della Croce Preziosa e Vivificante.

 

P. Manuel Nin osb

Pontificio Collegio Greco

 

 

APOLITIKION

Σῶσον Κύριε τὸν λαόν σου καὶ εὐλόγησον τὴν κληρονομίαν σου, νίκας τοῖς Βασιλεῦσι κατὰ βαρβάρων δωρούμενος καὶ τὸ σὸν φυλάττων διὰ τοῦ Σταυροῦ σου πολίτευμα.

 

 

Salva, o Signore, il tuo popolo e benedici la tua eredità, concedi ai regnanti vittoria sui barbari e custodisci con la tua Croce il tuo regno.

 

http://collegiogreco.blogspot.it/2011/09/la-festa-dellesaltazione-della-santa.html